In questi ultimi anni si è accentuato di molto il parlare di musica, di concerti con folle oceaniche, di esibizioni delle più svariate, di mode stravaganti mostrate sui palchi forse per sopperire ad oggettive “mancanze strumentali”.
Per fortuna c’è chi, mosso da ricordi di altri tempi, si è soffermato a considerare un certo tipo di musica, in particolare quella degli anni 80, quella che ha commosso, trascinato e unito tanti giovani, quella dei cantautori che hanno rappresentato un popolo, una generazione, diverse generazioni così come quella rock. Forse, a dirla in breve, a dirla dalla voce di un nostalgico del passato, c’è ancora chi sottolinea quanta buona musica è passata sotto i ponti e quanta, ahimè, sta condizionando l’epoca attuale.
Pensare a come un concerto possa essere ridotto a sfilata di moda o di pensiero, tramutato per comunicare il nulla o quasi, a “influenzar le menti”, rabbrividisce. Ma è tutta l’arte che è specchio di un popolo. Dove non c’è popolo non c’è musica degna di essere definita tale. Dove non c’è popolo non c’è arte che esprima un senso, un significato. La musica trasmette altro, trasmette la parte più eccelsa di noi. O almeno così dovrebbe essere. Ed oggi un popolo è difficile riconoscerlo: smembrato nei valori, nelle tradizioni, si riflette nelle angustie e nelle difficoltà comunicative, nello spezzettamento dell’essere, nella disomogeneità delle giornate.
Non si ha la presunzione di definire un certo genere di musica migliore di un altro così come un periodo storico, ma di sicuro c’è il desiderio di evidenziare quanta differenza ci può essere tra chi ascolta facendosi compagnia e chi ascolta rinchiudendosi nel proprio io. Per chi ha cominciato ad ascoltare musica negli anni 80, quando si mettevano sul piatto i vinili di Guccini, Gaber, Battiato, De André, Bennato, tutto era palesemente evidente: un modo di essere, di pensare, anche di contestare, un modo di vivere. Testi che venivano imparati a memoria, cantati insieme, usati come motti, inni e quant’altro. Alcune ballate ti rimanevano addosso, motivi che venivano fischiettati per strada, canzoni che univano, facevano compagnia, creavano amicizie.
Erano anche gli anni in cui il rock andava per la maggiore. C’era chi sosteneva che proprio in quegli anni il rock fosse morto perché ormai già era stato detto tutto e chi, invece, sosteneva che con l’avvento dell’heavy metal e di tutte le sue derivazioni anche estreme, qualcosa di nuovo stava accadendo. Era infatti il periodo in cui venivano fuori gruppi di un certo livello, gruppi appunto che hanno segnato quel periodo indelebile per tanti coetanei. Il solo parlarne apre porte a ricordi e sentimenti di un mondo, non solo quello musicale, che suscita emozioni indescrivibili.
Quanto può dare una sinfonia, una canzone rispetto a qualsiasi altra forma di espressione dell’uomo! Insieme all’arte propria della pittura, della scultura, dell’architettura, la musica riesce a trarre fuori dall’intimo dell’uomo la più grande emozione e gioia. “Nessuna espressione dei sentimenti umani è più grande della musica. Chi non è toccato da un concerto di archi? Come si può essere insensibili dinanzi ai colori di una sonata per pianoforte?” Don Giussani così recitava qualche anno fa. Ma oggi pochi giovani in giro cantano, vivono per lo più in un perenne ronzio di canzoni che sfuggono a cuffie e saltano fuori da tutte le parti, per durare lo spazio di un mattino. Di gran moda sono le folle radunate da artisti di ogni genere che, purtroppo, non creano amicizie, condivisione; anzi, il più delle volte, proponendo solo scioccanti provocazioni, non hanno lo scopo di rimandare alla canzone in sé per sé ma solo di suscitare contraccolpi scenici fini a sé stessi.
È come se oggi la musica (un certo tipo di musica) fosse pensata per erigere muri, isolamento, singolarità. In quanto specchio di una realtà giovanile disorientata, non si propone come portatrice di contenuti validi e sani bensì di esternazioni momentanee che con la musica classicamente intesa poco hanno a che fare. Queste canzoni e le esibizioni dei protagonisti possono anzi essere intese come il segno della corruzione di un’epoca. Le canzoni, invece di essere espressione di un popolo, diventano la ripetizione ossessiva, sentimentalistica, delle ombrosità e delle fisime dei singoli. Si è magari in tanti ad ascoltare e a riconoscersi in quelle note e in quelle frasette, ma si resta in frantumi, collettivamente soli.
Davvero è impossibile un canto di popolo oggi? Quello che aiuta maggiormente dal punto di vista espressivo, quel che proprio fa crescere, è cantare per qualcuno, con qualcuno. Troppo spesso vediamo ragazzi che usano la musica non come strumento di apertura verso il mondo ma come tentazione forte di rinchiudersi, forse, chissà, per diventare inconsciamente preda di quel mondo fatto di poche domande e nessuna risposta. Una cosa è sicura: troppe cuffie vengono vendute oggigiorno!